Challengers: il match di tennis tra arte e realtà, oltre la quarta parete
09/05/2024
L’ultima pellicola firmata Luca Guadagnino è un intenso scambio a colpi di inquadrature, battute e sound design, giocato sul campo di una perfetta estetica primi anni Duemila: un match coinvolgente dentro il quale la macchina da presa guida le emozioni ed i pensieri, contrastanti ma forti, dello spettatore che dalla poltrona del cinema parteciperà inevitabilmente del ritmo e della bellezza del film e dei suoi protagonisti, animandosi come un vero tifoso di tennis.
Challengers (2024) tra sport, relazioni e fragilità
La proiezione si apre sulle note angeliche di un coro di voci bianche mentre ci troviamo improvvisamente seduti sugli spalti soleggiati di un esclusivo circolo sportivo a New Rochelle, dove stiamo assistendo alla finale maschile dei Challengers: a sfidarsi sono i tennisti Art Donaldson e Patrick Swaig, rispettivamente interpretati dagli impeccabili Mike Faist e Josh O’Connor. A bordo campo, esattamente al centro tra i due, Tashi Duncan, interpretata invece da una splendida Zendaya, segue lo scambio dietro un elegante paio di scuri occhiali da sole. Gli sguardi che Patrick le rivolge e che lei invece restituisce ad Art disegnano sin da subito il triangolo, di cui, nel corso delle vicende, tutti i lati arriveranno inevitabilmente a toccarsi. La musica ad alto volume, quasi in contrasto, che scandirà la narrazione fino alla fine, inonda la scena e la storia può dunque avere inizio.
La trama si districa dentro e fuori dal campo seguendo l’intreccio tra i tre atleti protagonisti, i quali si attraggono e si respingono a vicenda nel loro rapporto con il tennis all’insegna della competizione, senza mai davvero lasciarsi andare. La storia, sviluppata su tre linee temporali in un gioco di flashbacks e flashforwards, ruotando intorno al perno dello sport ci parla soprattutto di relazioni e fragilità, e lo fa senza troppe parole, veicolando ogni “non detto” tramite il sapiente uso dei costumi e della musica.
L’anima tripartita del racconto è rappresentata non solo dai personaggi principali ma anche dalla struttura stessa del film, che riflette i canonici tre set dei match di tennis.
Il prodotto finale è maturo e irresistibile, dalla spiccata sensibilità umana e sensuale, caratteristica dell’acclamato regista di opere come “Chiamami col tuo nome” e “Suspiria”. Guadagnino in questa occasione si propone di offrirci l’esperienza del film, più che la mera visione, e lo fa scavalcando la quarta parete con diversi, originali espedienti.

Note di vittoria: La colonna sonora come anima narrativa in Challengers (2024)
La colonna sonora, interamente techno, fatta eccezione per pochissimi pezzi, è indubbiamente fra questi l’elemento fondamentale che il film indaga con maggiore originalità, in quanto concepita per essere estremamente presente, divertente e con una propria personalità, come fosse essa stessa un personaggio, sebbene invisibile, dalla forte presenza scenica, in una innovativa coniugazione tra suoni, volumi e voci.
Le composizioni elettroniche dei premi oscar Trent Reznor e Atticus Ross, con i quali il regista ha precedentemente collaborato per “Bones and all”, invadono in modo pressoché paradossale i dialoghi, ricordando vagamente una tendenza propria del cinema orientale e si impossessano dei momenti che precedono l’azione, caricandoli di aspettativa, tensione e dinamismo, come a suggerire che la vera partita stia già avendo luogo, assumendo progressivamente maggior rilevanza in una entusiasmante climax visiva e musicale che ci trascina fino al matchpoint decisivo, durante il quale i battiti del cuore sembrano sincronizzarsi ai bpm dei brani, i quali imitano a loro volta il martellio della pallina da tennis, facendoci quasi alzare dal sedile.
La musica ci guida e ci rapisce durante tutto il lungometraggio, restituendo unità ed armonia all’apparente caos degli avvenimenti, un potere di cui è investita prima di tutto nella reale quotidianità e che viene qui amplificato e omaggiato. Inoltre, le tre fasi della storia sono simbolicamente suggellate dall’eterea melodia che ascoltiamo al principio del film, la quale torna a metà racconto, in seguito all’infortunio di Tashi e verso la fine, incorniciando un ultimo emblematico intimo episodio, come evidenziato anche dai film editor e music editor del film Marco Costa e Roberta D’Angelo, nell’intervista rilasciata al magazine Outpump: “Il brano con cui Luca voleva aprire il film era Sound the Trumpet di Henry Purcell e Benjamin Britten, eseguito da un coro di voci bianche, proprio per mettere in risalto l’innocenza dei tre protagonisti, e i momenti cruciali in cui questo appare”.

L’uso del costume design per delineare rapporti e identità in Challengers (2024)
Un altro strumento importante che, sebbene in maniera più subliminale, ci comunica moltissimo e aiuta il film a raggiungere la realtà da questo lato dello schermo è il costume design, che vede in questa occasione al suo esordio cinematografico, Jonathan Anderson, direttore creativo di Loewe, nonché caro amico dello stesso Guadagnino, il quale ha una lunga storia d’amore con l’alta moda, avendo diretto cortometraggi per Maisons quali Zegna, Dior e Fendi; stimando le sue creazioni, era molto tempo che il regista italiano desiderava Anderson per un suo contributo sul set, realizzato finalmente con ”Challengers”.
Per questo progetto, gli abiti sono stati pensati con il fine di riflettere e cogliere il piglio e lo spirito dei protagonisti e le loro sottili evoluzioni: l’abbigliamento è lineare, sportivo, dai colori pastello e composto per lo più di indumenti pratici e comodi, soprattutto quando i nostri tennisti sono ancora giovani promesse nella loro disciplina, con rimandi alla moda dei primi anni Duemila ma anche a capi delle scorse collezioni di Loewe, come il vestito blu elettrico indossato da Tashi Duncan nel party Adidas in suo onore. E, a proposito di quest’ultimo dettaglio, le marche dei brand non vengono mai nascoste, anzi, piuttosto mostrate con disinvoltura, rimarcando il fatto che è questo il presente in cui viviamo, andando così ad aggiungere credibilità e tridimensionalità alla storia: vedasi ad esempio i completi Uniqlo indossati da Art, l’orologio Cartier e le espadrillas Chanel di Tashi, entrambi personaggi che nel film sono persino testimonial della campagna pubblicitaria (fittizia) della Aston Martin e che riescono a trasmettere, per mezzo delle marche di lusso, un’immagine di successo e di benestare; al lato opposto del campo invece, Patrick, che cerca di diventare a tutti gli effetti un tennista professionista, nonostante apprendiamo provenire da una ricca famiglia, è anticonformista e lo dimostra vestendo completi sportivi semplici e spaiati che tuttavia su di lui non risultano mai sgradevoli o casuali e nei quali è completamente a suo agio: non sente il bisogno di una firma sulla maglia per essere deliberatamente sicuro di sé. Per quest’ultimo personaggio, Anderson si è ispirato prevalentemente allo stile sporty chic, casual eppure immancabilmente elegante di John Fitzgerald Kennedy Jr., del quale ha inoltre citato la famosa, iconica maglietta in cui era stato paparazzato e sulla quale campeggiava la scritta “I told ya”, riferimento allo slogan della campagna politica del padre che recitava “I told you so”.
La maglietta, ridisegnata dallo stilista, si avvale nel film, insieme a pochi altri capi, di un valore allegorico molto interessante, apparendo per la prima volta su Tashi; poco dopo però è Patrick che, nel rivestirsi, la infila in fretta, senza nemmeno notarlo, per poi riapparire nel film con quella stessa maglia molti anni dopo. Questo scambio, che passa apparentemente inosservato, viene riproposto altre due volte nel film: inizialmente tra Patrick e Art, che vediamo indossare una stessa camicia in due momenti differenti e poi sul finale, quando Tashi porta invece una maglietta di Art.
Nella naturalezza e quasi casualità del gesto, è celata la chiave del legame tra i protagonisti, l’interscambiabilità delle loro scelte, l’interdipendenza e le affinità dietro i superficiali conflitti: così simili tra loro, ognuno proietta sull’altro le proprie mancanze, necessità, frustrazioni e fallimenti, ammaliati da un’idea, aggrappandosi a ciò che scorgono di sé stessi e che non possono in realtà essere, consumandosi, odiandosi e amandosi a vicenda.
Le parole dello storico dell’arte Winckelmann “La grazia è quello specialissimo rapporto che lega l’attore all’azione”, descrivono accuratamente il merito di Zendaya, Josh O’Connor e Mike Faist in queste vesti, capaci di far trasparire tutta la schiettezza e la delicatezza di questa relazione-specchio, dipingendo perfettamente il continuo processo di innamoramento e disamoramento nei confronti della propria passione e la conseguente ricerca negli altri di noi stessi e dei nostri sogni a metà.
I giochi di camera nei quali la scena è talvolta ripresa da punti di vista interni alla storia, accogliendovi così lo spettatore come ne facesse parte, la complessa e sincera empatia che nasce verso i personaggi, il product placement strategicamente esibito, la possibilità persino di acquistare la maglia simbolo del film, oramai virale, e la travolgente colonna sonora sono tutti gli ingredienti che assottigliano la rete che divide sul campo da gioco della macchina da presa di Luca Guadagnino arte e realtà, favorendo uno scambio proficuo e appassionante che resta irrimediabilmente con noi ben oltre i titoli di coda.

Laureanda in Lingue e Letterature Straniere all’Università La Sapienza di Roma. Monica persegue la sua passione per la scrittura e la Fashion Industry occupandosi su QUAINT Art Magazine della sezione Arte & Moda.
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